dic 20, 2013 Alessandro Pagano Sport USA 0
Roma. “Ci sono squadre che sono destinate a dividere” furono le parole dell’avvocato Federico Buffa ai microfoni di Sky subito dopo il Repeat degli Heat. I Miami Heat dell’executive della stagione 2010/2011 Pat Riley, la franchigia ricostruita dal padrone delle Crociere Carnival, Micky Arison, è senza ombra di dubbio una delle squadre complessivamente più forti mai assemblate. La loro rivoluzionaria idea di “Small Ball”, ossia il gioco senza il centrone di riferimento, ha radicalmente cambiato il modo di giocare la pallacanestro ad un certo livello. Gli Heat, insomma, hanno dato modo, seppur con investimenti finanziari pressoché folli, di poter ammirare con la stessa casacca all-star come Lebron James, Dwayne Wade, Chris Bosh e Ray Allen. L’esaltazione della presentazione, la gioia immensa dei tifosi, dello staff tecnico e presidenziale, di un’intera città come Miami è però sempre sinonimo di vittoria, di progetto perfettamente riuscito, di razionale soddisfazione professionale? Rispondiamo gradualmente a questo complesso interrogativo. La storia dei Miami Heat la conosciamo tutti: l’assemblaggio, la scelta di James, la presentazione, la famosa “no two, no three, no four, no five, no six, no seven…” di Lebron , la clamorosa storia dei Mavericks nel 2010-2011, le vittorie dei due titoli di fila contro OKC e SAS. Ma ciò che forse si dice poco di questa fantastica squadra è la radice della forza, è la fonte di determinazione e grinta del gruppo che con grande merito ha saputo costruire Erik Spoelstra. Per 11 anni vice capo allenatore di Miami, dal 2008 coach Spo è stato capace di far convivere insieme personalità forti, leader carismatici che differivano tra lor per caratteristiche, per metodi e per tanto altro. Non solo tante vittorie (260) ma anche tante sconfitte (134) sul percorso di Spoelstra e degli Heat. Ma come si fa a tener compatta, unita, coesa una squadra con tante personalità, con tanti campioni, con così tanta voglia di vincere e, soprattutto, con tanti “Haters”, cioè con tanti appassionati di NBA che criticano, denigrano e non tollerano una squadra? La ricetta di Spoelstra sta nell’etica del lavoro, nel costante e faticoso sacrificio da parte di tutti, delle superstar in primis (basti vedere la difesa di James a Cleveland e quella attuale per capire molto del lavoro psicologico di un coach così). I punti di forza sono tanti, c’è chi addirittura sostiene che la vittoria della squadra non è stata tanto sancita dagli anelli quanto dalla bellezza nel vedere il lavoro di squadra che offrono i Miami Heat. Ma, così come valeva per vittorie e sconfitte, anche in questo ambito, psicologico e prettamente legato all’etica lavorativa di ogni singolo giocatore, ci sono alti e bassi. Negli ultimi 3 anni ci sono stati solo 2 episodi che hanno fatto vacillare la stabilità dello spogliatoio o quantomeno che hanno dato adito a supposizioni di questo genere. Incredibilmente questi 2 eventi sono avvenuti sempre contro gli Indiana Pacers, l’unica squadra che, forse, insieme ai Chicago Bulls, ha seriamente messo in difficoltà ad Est la franchigia della Florida.
Il primo episodio avviene il 17 Maggio 2011, HYPERLINK “http://it.wikipedia.org/wiki/Bankers_Life_Fieldhouse” \o “Bankers Life Fieldhouse” Bankers Life Fieldhouse, Indianapolis. Gara 3, Eastern Conference Semifinals. La partita si mette bene per i padroni di casa che riescono ad accumulare un discreto vantaggio a metà terzo quarto. Le disattenzioni difensive degli Heat sono troppe, così come le forzature in attacco. Coach Spo chiama TimeOut dopo un pessimo rientro difensivo ed è in dovere di dire a Dwayne Wade di rientrare meglio in difesa e di forzare di meno per non soccombere ancora di più nel risultato. Flash, adirato, risponde in malo modo al coach e si allontana dalla panchina, dove provano a farlo ragionare Howard, Chalmers e lo stesso James. Al termine di questa querelle sia Wade che Spoelstra minimizzano la cosa dicendo che sono episodi che possono capitare nell’arco di una stagione ma soprattutto mi ha colpito un’espressione usata dal coach di origini filippine: heat-of-battle moment (nel fervore del momento della battaglia, letteralmente). Tenete aperta la finestra su questo idioma di coach Spo. La vicenda si concluderà poi con una gara4 stellare da parte di Wade. Abbiamo iniziato citando Buffa, concludiamo l’episodio nello stesso modo. Il telecronista commenta il tutto dicendo “Ci sono delle star che ogni tanto hanno bisogno di motivarsi, in modo sbagliato come Wade, ma gli serve per darsi un’emozione all’interno di una partita in cui dentro non c’era niente in D-Wade”. L’aspetto legato alla motivazione è uno dei pilastri che regge in piedi Miami, che riesce a tener insieme tante superstar. Aggiungete anche questa alla finestra che avete precedentemente aperto.
Dopo 946 giorni cambia lo scenario, cambiano i protagonisti ma non le squadre coinvolte. Stavolta siamo a South Beach, Miami, Florida, American Airlines Arena, la prima della piazza ad Est, i Pacers, contro i secondi della classe, gli Heat. La partita è in salita per i padroni di casa che, a metà del terzo quarto, vanno sotto di 10 con una tripla “solitaria” di Paul George per via di un errore di comunicazione tra James e Chalmers. Coach Spo è costretto a chiamare TimeOut e Rio alza la voce con il Re che in un primo momento resta seduto, quasi non curante delle parole del playmaker, ma poi ha uno scatto rabbioso che lo vede in un nanosecondo faccia a faccia con Chalmers. Fortunatamente capitan Haslem trattiene per un braccio LBJ per evitare il peggio che, vista la faccia dell’MVP, si pronosticava. Due situazioni quelle raccontate abbastanza diverse dal punto di vista della dinamica ma che hanno forse la stessa base, provengono dalla stessa corrente di pensiero. Per riallacciarci a quella finestra di Spoelstra e Buffa, l’heat-of-battle moment e l’aspetto motivazionale, troviamo tante similitudini tra i due episodi. Entrambe le volte si tende a minimizzare, anzi. Nel secondo caso ancora più platealmente e rapidamente, James si scusa con Chalmers nel TimeOut successivo dicendo “Yo, Rio. I was wrong, my bad!”(Mario, mi sbagliavo, errore mio!) e anche su twitter: “I love Mario Chalmers like a blood brother! I was wrong and apologize to him! We good and will always be good. I ride with him any & every day” (Io voglio bene Mario Chalmers come un “fratello di sangue”! Ho sbagliato e mi scuso con lui! Noi siamo buoni e saremo sempre buoni […]). Scuse immediatamente accettate da Mario che, una volta tornato sul parquet con James, ritrova gran parte dell’attenzione, della voglia di vincere e della grinta, così come James, decisivo alla fine per la vittoria dei Miami su Indiana. In entrambi i momenti, Miami cerca di scuotersi con questi tipi di episodi, cerca di smuovere le acque in momenti difficili per poi reagire alla grande, da vera squadra.
Le somiglianze tra gli episodi sono interpretate sotto quei due aspetti appena citati, per sottolineare come e quanto sia difficile gestire e gestirsi all’interno di una rosa che vede coinvolti così tante personalità e così tanti campioni. Ma mi riallaccio a quella corrente di pensiero che presumeva che la forza di Miami sia nel gruppo, nel sacrificio di ognuno, in campo e fuori. Le motivazioni in campioni del genere, a maggior ragione a questo livello, sono fondamentali e, anche se sbagliando, ognuno ha il proprio modo crearle e ricrearle. L’assetto mediatico, la grande copertura che si dà a queste cose, a questi eventi tende il più delle volte a sovrastimare, a sopravvalutare l’accaduto. Prima di essere giocatori, campioni, atleti sono persone. Ma è sempre il gruppo che fa la differenza e a Miami l’hanno capito bene.
Nato a Pompei il 3/4/1993. Studente del corso di Scienze e Tecnologie della Comunicazione presso La Sapienza di Roma, Redattore NBA per partenopress.com e My-Basket.it; giocatore e amante della palla a spicchi da sempre. MORE THAN A GAME.
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