feb 24, 2014 Claudio Pellecchia Sport USA 0
Roma. In slang americano si dice “tankare”. In un più pragmatico bolognese lo si potrebbe tradurre in un altrettanto significativo “gliel’ha data su”. E’ lo scenario che ad oggi, 24 febbraio 2014, ha come protagonisti i Los Angeles Lakers che, con la sconfitta contro i Brooklyn Nets, si ritrovano mestamente all’ultimo posto della Western Conference, con il poco invidiabile record di 19-37.
Mettendo, momentaneamente da parte le ragioni di cuore e tifo, nonché la voglia di sfociare nel triviale per tutto ciò cui i miei amati gialloviola mi stanno sottoponendo nella stagione di (dis)grazia 2012/2014, proviamo a tracciare i contorni di quella che, oramai, sembra essere una crisi programmata. Un anno di transizione, come si dice da noi, abituati come siamo a improvvisare e a non pensare mai sul lungo termine: figuriamoci nel paese dove in tutte le leghe sportive professionistiche i giudizi sul rendimento di una franchigia sono parametrati su di un arco di almeno cinque anni. Del resto se perfino la stagione 1972/73 degli allora Philadelphia “seventysickers” è diventata un culto piuttosto che un’onta da lavare via ad ogni costo, si capisce come negli States ci vadano discretamente cauti con i giudizi tranchant, almeno nella singola annata.
Mettiamoci poi che, nel prossimo giugno, c’è la possibilità di draftare prospetti più che interessanti quali Parker, Wiggins e Randle (secondo la logica biblica degli “ultimi che saranno i primi”), allora la strategia purple and gold parrebbe meno scriteriata del previsto (sebbene con gli eredi del compianto Buss sr. mai dire mai). Così come la possibilità, paventata non più tardi di qualche giorno fa, di far saltare a Kobe Bryant il resto della stagione non è poi priva di raziocinio. Il black mamba va per i 36, è reduce da un tendine d’achille rotto e con un ginocchio che non gli da tregua da dicembre: consentirgli di recuperare con calma, anche in virtù di un recente prolungamento da 48,5 milioni per i prossimi due anni (tantini, anche per uno come il 24), vorrebbe dire posare la prima pietra angolare per il progetto di assalto al titolo nel 2015. Perché la prossima versione dei Lakers deve puntare all’anello. Perché è, presumibilmente, l’ultimo anno di Kobe (che vuole il sesto trionfo per mettersi in pari al nativo di Wilmington, North carolina) e perché solo così si potrebbe dare un senso a 4 anni di scelleratezze ed errori. Perché, ed è bene ricordarselo tutti, questa squadra, nel luglio 2010, era reduce dal “back to back”, per di più al termine di una gara 7 spaccacuore contro gli odiati Boston Celtics. Con tutte le premesse per dare un ulteriore seguito a quel ciclo già vincente. Invece ecco arrivare lo “sweep” contro i Mavs nel 2011, seguito dall’inglorioso 1-4 griffato Durant & co l’anno dopo, per concludere con il cappotto 2013 “Pop edition”; in mezzo, come detto, l’infortunio di Bryant, Metta World Peace che di Artest prende solo la psiche improntata all’umoralità eccessiva (ho edulcorato, lo so), l’ingaggio di quel che restava di Steve Nash e di un Howard dalla schiena Mcgradyesca, Gasol che pare regredire allo sgraziato birillone degli esordi oltreoceano. E poi Brown e D’Antoni, finiti inevitabilmente stritolati nel tritacarne di quello star sistem, croce e delizia della franchigia di Hollywood, indipendentemente dalle loro opinabili qualità di allenatori. Con il contorno di una dirigenza che, a buoi abbondantemente scappati, cerca di chiudere faticosamente le porte della stalla (leggasi tagliare monte ingaggi e “luxury tax” in previsione della prossima free agency): il capolavoro di Howard spedito a Houston dopo una sola stagione, facendo dei texani una delle principali contender ad Ovest (indovinate a scapito di chi), è solo la punta di un iceberg dalle dimensioni spaventose (Fisher spedito senza troppi riguardi a Okc, Odom e Barnes regalati, o quasi, ai cugini in bianco rosso e blu).
Forse è per tutto questo che il sottoscritto e altri come lui, non riescono a vedere la luce in fondo al tunnel dell’improvvisazione. Come potrebbe, infatti, una franchigia capace di una simile parabola, esser stata di colpo folgorata sulla via di Damasco della programmazione? Parigi (equiparabile ad una buona/ottima pescata al draft) val davvero bene la messa cui si è assistito nelle ultime stagioni sportive? E la volontà di portare a LA uno degli “svincolati di lusso” (Lebron? Melo?) è realisticamente praticabile oppure destinata a rimanere una boutade? Tante domande e troppo poco tempo per rispondere. Ma, draft o non draft, annata storta o meno, i Lakers lì in fondo fanno notizia. Non necessariamente in positivo.
Nasce a Napoli il 07/09/1987. Già collaboratore/redattore per il "Roma", "Il Mattino" e toniiavarone.it, nonostante la laurea in Giurisprudenza ha deciso comunque di intraprendere l'avventura rischiosa e affascinante del giornalismo. Pubblicista dal 2013, ama lo sport e le storie che vi ruotano attorno. Occuparsi di Nba non è un lavoro, ma un piacere.
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