feb 24, 2017 Redazione Cinema 0
Roma.Ci aveva già raccontato di giovani ‘febbricitanti’ e fragili, di amori inespressi o idealizzati, di sensi di colpa covati per anni e di luoghi abitati da fantasmi, ma con Rosso Istanbul – tratto dal suo stesso omonimo libro, pubblicato da Mondadori nel 2013 – Ferzan Ozpetek sembra aver voluto frugare nel suo baule dei ricordi, rispolverando modelli sfruttati qui e lì, da Le fate ignoranti a Magnifica presenza, nel tentativo di trovare un posto a tutte le proprie debolezze, pulsioni o fonti di ispirazione, che dir si voglia.Sarà meglio però non dare per scontata la comprensione, l’empatizzazione e l’identificazione degli spettatori con personaggi tanto sfuggenti… Forse per effetto di un adattamento troppo libero del romanzo originario, forse per loro natura. In tutti loro, in fondo (e per ammissione esplicita), c’è un po’ del regista; e chissà se anche di un suo bisogno di fare i conti con il passato, con i propri spettri, amori e odi, attese infinite. “Niente è più importante dell’amore” recita la frase di lancio, ma è soprattutto su dolore e abbandono che la storia avanza. Certo, c’è un grande amore nel film che il regista turco dedica alla madre (tra i personaggi, nella famiglia di Orhan, verso la città), ma anche ambiguità ed ellissi.E se tutto concorre a farne un film sicuramente molto intimo e per certi versi affascinante, è narrativamente che tante ombre finiscono per prendere il sopravvento. Nella scelta di inserire immagini e scene poco coerenti con il contesto (per quanto sia un merito anche la sola citazione della questione curda e delle ‘madri del sabato’), nelle transizioni veloci e disomogenee tra diversi momenti, nella teatralità con cui alcune figure sono caratterizzate e nel susseguirsi di citazioni e frasi che estrapolate dalla pagina assumono ben altro aspetto…O nella rappresentazione di certe assenze (particolarmente forzata quella del cane, per quanto utile a certe simmetrie interne); su tutte quella della città: protagonista assoluta e agognata, mostrata principalmente nelle sue vedute acquatiche o più moderne. Da tutti cercata e da ciascuno, in modo diverso, posseduta e riappropriata. Come sembra testimoniare la scena finale, possibile simbolo di una raggiunta pacificazione dello stesso autore con sé stesso, il proprio vissuto e i tanti frammenti ai quali evidentemente sentiva il bisogno di dare corpo per poterli affrontare.
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