ott 04, 2017 Redazione Sport USA 0
New York. Sono a Toronto da quasi tre anni e ci sono due cose che non ho ancora vista: le cascate del Niagara, ma posso sempre andarci, prima però c’è altro che voglio vedere a tutti i costi, cioè Toronto FC vincere la MLS Cup. Ci siamo andati molto vicini l’anno scorso, ma sfiorarla non è abbastanza. Vengo dall’Italia e ho giocato gran parte della mia carriera lì. Da noi si dice: “E’ come andare a Roma e non vedere il Papa”. Ora, non voglio comparare la MLS Cup a una visita in Vaticano, ma… non avrò fatto tutta questa strada senza vedere Toronto alzare la coppa. Punto.
Mi ricordo il primo campo su cui ho giocato da bambino a Torino. Non c’era erba, solo sporcizia e linee di gesso che si alzavano ogni volta che ci si passava sopra. Quando cadevi su quel terreno duro dovevi sperare di non romperti qualcosa. Ma quel campo era tutto quello che avevamo. Non c’erano grossi cinema o centri commerciali nel nostro paese. Niente. Potevi giocare a calcio o… giocare a calcio. Su quel campo terribile.
In realtà io non iniziai da subito a giocare a calcio, non ero come tutti gli altri bambini che sognavano di giocare in Serie A. Non lo guardavo nemmeno troppo in tv. Andavo in giro con mia mamma che lavorava nel bar di mio zio. Dietro quel bar, però, c’era quel campo.
Passavo spesso da quelle parti con i miei amici e qualche volta mi fermavo a guardare alcuni ragazzi giocare, soprattutto quando arrivava qualche selezione regionale. Un giorno la squadra locale doveva affrontare una sfida 7vs7 e mancava un giocatore. Avevo solo 6 o 7 anni e i ragazzi della squadra erano più grandi. Erano veramente disperati perché mi chiamarono a giocare. Da quel momento ho capito che la mia vita sarebbe cambiata: giocare a calcio mi rese felice. Fu divertente e mi fece conoscere nuovi amici. Così andai a casa dopo la partita e dissi a mio padre di voler giocare e il giorno dopo tornai al campo, poi il giorno dopo ancora e così via.
Iniziai come centrocampista, mi piaceva fornire assist ai compagni. Poi però capii che c’era solo una cosa che mi piaceva di più rispetto a fare assist, ed era segnare da me. Il gol era la cosa più importante per me. Con quelli si vince.
La scuola cominciò a passare in secondo piano, spendevo tutto il mio tempo allenandomi con la squadra – il San Giorgio Azzurri – e giocavo ovunque potessi. Al campo, nei parchi in giro per la città, anche in appartamento con il mio fratellino Giuseppe. Durante il giorno calciavamo il pallone contro i muri e facevamo impazzire mia madre: “Seba, hai fatto cadere un altro quadro!”.
Non avevamo molto. Abitavamo a pochi chilometri dallo Stadio Delle Alpi, ma non avevamo mai avuto i biglietti per andare a vedere la Juventus e sicuramente non potevamo permetterci di comprare un kit ufficiale. Ricordo che mio padre risparmiò tutto l’anno per comprarmi il primo paio di scarpe da calcio. Non mi importava, l’unica cosa che contava era giocare.
Dopo un anno con la mia squadra, uno scout della Juventus mi invitò nell’academy bianconera. Probabilmente sembrerà una storia pazza per la velocità con cui tutto è successo, ma è andata così. Un giorno giochi con la squadra del tuo paesino, e il giorno dopo un club ti osserva e porta con sé. Un giorno un signore mi vide, parlò con mio padre e il giorno dopo ero parte della Juventus.
Vivendo vicino all’academy, continuai a vivere con i miei genitori e ogni mattina mio padre mi portava al campo con la sua Renault 5- Dopodiché tornava a casa e prendeva mia mamma per portarla al bar a lavorare. Alla sera il contrario, prima mia madre per permettergli di preparare la cena, poi me al campo. Faceva così tanti chilometri per noi con quella auto, che ogni due anni doveva cambiarla.
Mio padre non era un calciatore. Veniva da Milano e tifava Milan, la miglior squadra in circolazione all’epoca. Ma non ha mai giocato a calcio o guardato una partita in tv. Quindi era felice che io facessi parte della Juventus, tanto quanto lo ero io. Per un periodo, però, non fu contento. Quando avevo 15-16 anni non giocavo molto, e quando tornavo in macchina con lui spesso piangevo. Un giorno fermò l’auto e mi disse: “Seba, non ti riporto più domani”. Lo guardai e gli risposi: “Perché?!?”. “Perché non ti porto qui solo per farti piangere”. Pensai un momento: ok, non piangerò. Devo solo lavorare di più. E vincere. Funzionò. Fu una della prime cose che ti insegnano quando arrivi alla Juventus: il rispetto e la vittoria.
A 17 anni venni portato nell’ufficio del tecnico a firmare il mio primo contratto ufficiale con la Juventus. E mio padre venne con me, visto che ero minorenne. L’ho voluto con me anche per un’altra firma: un nuovo appartamento. Fu la prima cosa che ho comprato per la mia famiglia.
Ricordo molto bene anche la prima volta che sono entrato in campo allo stadio. Niente a che vedere con quel campo duro e sporco dell’inizio. Giocavo con Del Piero, facevo assist a Trezeguet. Ero veramente orgoglioso di aver riportato la Juventus in Serie A, pronti per ritornare al top. Contava solo vincere, non importa come. Per me l’importante, come sempre, era giocare.
Ma dopo qualche anno ho visto che la Juventus non mi dava più spazio in campo di quanto volessi. Andai via per qualche prestito e il mio contratto coi bianconeri finì. Lì cominciai a pensare alla MLS e Torontoè stato il primo club ad approcciarsi a me. Il discorso fu veramente veloce e in MLS l’unico club che ho preso in considerazione è stato questo. In 2-3 giorni abbiamo trovato un accordo.
Arrivai a Toronto nel febbraio 2015 e quando l’aereo atterrò, beh, diciamo che quel freddo me lo ricordo ancora adesso. Quello e le centinaia di tifosi arrivati ad accogliermi all’aeroporto. Ho imparato due cose da allora: il piumino canadese mi tiene sempre caldo (la squadra me ne diede uno subito al mio arrivo); i tifosi di Toronto sono sempre con noi.
Non penso di sapere quanto questa città fosse stupenda. C’è uno strano feeling, ho giocato in altre città e non è facile spostarsi spesso. Non è così facile che i tifosi ti accettino subito. Ma a Toronto ho trovato una nuova casa. Poi la cosa più importante è che in campo stiamo facendo cose che nessuno si aspettava da noi. Prima di arrivare sapevo che questa squadra avrebbe potuto fare qualcosa di speciale, non so perché. Ma appena ho incontrato i miei compagni ho capito che tutti avevamo la stessa mentalità e lo stesso obiettivo. Tutti volevano una sola cosa: vincere.
E lo abbiamo fatto, subito nel 2015. La mia prima stagione portò i playoff per la prima volta nella storia del club, ma festeggiammo troppo perdendo le ultime due partite del campionato perdendo poi anche le due sfide di playoff contro Montreal. Era un altro aspetto cardine della Juventus che ho voluto portare a Toronto. Oggi vinci e festeggi, dopodiché si va avanti.
L’eliminazione contro Montreal fu un duro colpo. Volevo dimostrare qualcosa alla città e alla squadra. Volevo fare capire perché ero qui e cosa potevamo fare. Ma da quelle sfide tutti imparammo qualcosa, fu un punto di inizio per la squadra che siamo ora. Nel 2016 affrontammo ancora Montreal, e non sbagliammo. In finale andammo noi. Ma quella finale…
Cosa devo dire su quella finale di MLS Cup (persa in casa ai rigori contro Seattle Sounders ndr)? Se devo essere sincero avevo un presentimento negativo prima della partita, già da qualche giorno. C’era qualcosa che mi diceva che le cose non sarebbero andate per il verso giusto. Ne parlai con qualche familiare, provai anche a scrollarmi di dosso questi pensieri il giorno del match. Di occasioni ne abbiamo avute, ma non siamo riusciti a concretizzarle. Non voleva entrare il pallone. Anch’io non ho potuto finalizzare.
Mi chiedo cosa sarebbe successo se non avessi dovuto chiedere il cambio per i crampi. Mi chiedo cosa sarebbe cambiato se avessi fatto questo o quello. Ma alla fine è sempre la stessa cosa, che tu vinca o perda devi guardare e andare avanti. Ci mancava pochissimo per vincere la MLS Cup e abbiamo fatto pochi cambiamenti, quelli che ci servivano. Uno di questi è Victor Vazquez, può aiutarci vincere. E’ il re degli assist nella lega e quando è in campo diventiamo una squadra migliore. Ed eravamo già molto forti, grazie a due “ragazzi”.
C’è Michael Bradley. E’ il nostro leader in campo e nello spogliatoio. E dopo tutto il tempo passato in Italia tra Chievo e Roma, anche il suo italiano è molto buono (forse meglio del mio). Ma cosa più importante è quello che ci dà consigli e forza per dare tutto prima di una partita. Poi c’è Altidore. Lui è il mio ragazzo. E’ divertente, nel primo anno in MLS nessuno conosceva il mio modo di giocare così ho potuto fare molti gol perché mi lasciavano libero. Il secondo anno i difensori hanno cominciato a farci caso e sono stato marcato con più decisione. Se marcano me, però, lasciano più spazio a Jozy che è cresciuto anche in zona gol. Abbiamo un’intesa naturale in campo. Non parliamo molto prima del match, scendiamo solo in campo e ci troviamo.
Non sono uno che parla molto, davvero. Forse è un problema di lingua. Ma penso che in uno spogliatoio c’è gente che parla e altra meno. A me piace far parlare il campo, come Del Piero. Quando non parlo, ascolto. Ascolto i nostri tifosi. Sarò onesto, non capisco ancora molti dei cori ma sto imparando. Ma riconosco perfettamente quando stanno cantando il mio nome al BMO Field. Lo ascolto. Lo sento.
Chiamate questa nostra stagione come quella del ritorno, della rivincita, come volete. Siamo stati in testa alla classifica ogni anno, ma non siamo soddisfatti. E dopo ogni vittoria, finiamo di festeggiare e andiamo avanti. E non ci fermeremo finché vedremo il titolo a Toronto. E dopo aver alzato la MLS Cup con Toronto FC so già cosa vorrò fare dopo… andare a vedere le cascate del Niagara.
Sebastian Giovinco per The Players’ Tribune
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