giu 17, 2014 Claudio Pellecchia Sport USA 0
Roma. ‹‹Coach ma lei lo prenderebbe?›› ‹‹Sicuro. Anzi, gli darei anche in sposa una delle mie figlie››. Ad oggi, 17 giugno 2014 ignoriamo quanto della progenie femminile di Mike D’Antoni sia ancora illibata. Sappiamo, invece, cosa il destino abbia riservato a Marco Belinelli, ignaro cacciatore di dote in quell’occasione, ottimo giocatore di pallacanestro nel resto del tempo. Perché più che sull’avvenenza (de gustibus) il baffo che conquista, in quel torrido agosto giapponese del 2006, fu attirato dalle qualità che il nostro mise in mostra sul parquet: 25 i punti referto contro uno dei “Dream Team” meno “Dream” della storia (epperò valli a fare contro quelli lì), con tanto di schiacciata in campo aperto per il +12, buggerando Carmelo Anthony. Come l’urlo di Rocky che, dopo aver scalato la montagna a mani nude (grazie Hollywood), chiama Ivan Drago, quella è la lettera di presentazione di Marco alla Nba: ‹‹Signori miei, I belong››.
Dieci mesi e ultima, complessa, stagione con la Fortitudo dopo, come diciottesima scelta del Draft 2007 c’è lui. La destinazione è Golden State e tutti giù a darsi di gomito: ‹‹Bene così, vedrai che nel sistema “run and gun” di Don Nelson si troverà alla perfezione››. Una Summer League dalle cifre clamorose (22,8 di media col 44,4 da tre) sembra confermare le prime sensazioni: nella squadra reduce da uno dei più clamorosi “upset” della storia recente (4-2 ai Mavs primi ad Ovest con Nowitzki che, di tanto in tanto, ancora si sveglia fradicio pensando al Barone) Beli può essere un protagonista.
Il 30 ottobre l’esordio: 6 punti in 12 minuti contro gli Utah Jazz e già qualcuno comincia a intuire che, forse, si era stati eccessivamente ottimisti. Il primo anno è un pianto greco: 7,3 minuti di media in appena 33 delle 82 partite di regular season. In molti, consultando la mattina il sito della Nba in cerca di buone notizie, vengono respinti con perdite da quella che, più di una dicitura, appare come una sentenza di condanna: “dnp”, che potrebbe anche leggersi “Don Nelson, perché?”.
La seconda stagione comincia con la spada di Damocle di una D-League incombente. Eppure, complice la morìa nel reparto guardie, la ruota sembra cominciare a girare. Dalla gara dell’8 dicembre contro Oklahoma City, in 11 delle 13 partite successive segna più di 11 punti di media, con l’exploit dei 23 contro i Raptors dell’altro paisà Bargnani, la sera del 29 dicembre. Il “sembra” di qualche rigo fa è, però, in agguato. L’11 gennaio 2009, contro i Pacers, arriva la distorsione alla caviglia destra che ne striscia positiva e ascesa: al suo ritorno, un mese dopo contro i Lakers, il ritorno agli stenti degli esordi sembra quasi una logica conseguenza. Chiusa la stagione a 8,9 di media in poco più di 21 minuti la grande decisione. Per giocare di più si va a Toronto, in quella che i giornali canadesi definiscono come la nuova “Pizza connection” (della serie: “bene ma non benissimo”) con il Bargnani di cui sopra.
Solo che, per una legge del contrappasso in agguato come la fantozziana nuvola da impiegato, ai Raptors nel ruolo c’è DeMar DeRozan e quindi un minutaggio inferiore rispetto alle briciole raccattate nella baia. Non arrivano nemmeno i playoff che sembravano ipotecati prima della pausa per l’All Star Game. E, di nuovo, saluti e baci alla ricerca del compimento del proprio destino da predestinato, mentre dall’altra parte dell’oceano continuano a rincorrersi le voci di una sua inadeguatezza per quel contesto. Gli Hornets in versione New Orleans sembrano un azzardo. Eppure proprio per questo (o, più realisticamente, perché giocare con Chris Paul allunga la vita più della telefonata di quel celebre spot) la lega comincia ad accorgersi di lui: 10,4 punti e 25 minuti di media a incontro (oltre al 40% nel tiro da tre) gli consentono, per la prima volta in carriera di raggiungere i playoff. Si comincia a scollinare dopo la salita e nel luglio del 2012 si concretizza il passaggio ai Chicago Bulls. Sotto Thibodeau la trasformazione in specialista della fase difensiva e il ruolo di primo cambio in una franchigia che, infortuni di Derrick Rose a parte, avrebbe tutto per competere con lo strapotere degli Heat a Est. I playoff da protagonista e gare 6 e 7 contro i Nets giocate dimostrando una discreta dose di huevos (come da foto dimostrativa) gli valgono la classica “chiamata che non puoi rifiutare”. E, per una volta, non si cade vittima dei facili stereotipi sugli italo-americani, perchè il treno Gregg Popovich passa una volta sola nella vita. Per alcuni, forse mai.
Quello che accade dall’11 luglio del 2013 ad oggi è, come si suol dire, storia. I 28 punti in 29 minuti con il 10/16 dal campo, i 32 contro i Kniicks, il tranquilliano “caldo come una stufa” nella gara del tiro da tre all’All Star Game di New Orleans, il primo posto a Ovest, l’exploit contro Portland, lo «stay ready, mr. Big shot!» di Pop (ovvero l’investitura ufficiale del cavalierato Spurs), le finali contro gli Heat, i 9 minuti in gara 5, il titolo.
Ecco, forse proprio il titolo appare come il dettaglio meno importante: perché se è vero che il viaggio è più importante della meta che hai raggiunto, allora la strada percorsa dal profeta di San Giovanni in Persiceto resterà scolpita nella memoria ben più a lungo del Larry O’Brien. E’ diventato non il giocatore che meritavamo, ma quello di cui avevamo bisogno (mille scuse Nolan): un inno alla speranza, alla fiducia in se stessi, alla determinazione a cambiare ciò che è scritto nelle stelle. A volte la gente ha bisogno che la propria fiducia venga ricompensata (è l’ultima Christopher, promesso): le lacrime del post partita sono la dimostrazione che, quando ci credi davvero e dai tutto, sempre, una cosa del genere può ancora accadere. E che un italiano può diventare campione Nba, quando, come tutti noi, aveva iniziato a sognare questo mondo attraverso le immagini televisive, ammirando le gesta di quelli che sarebbero poi diventati i suoi compagni di trionfi.
Alla fine, l’interrogativo da porsi è uno solo. Marco, ma alla fine la figlia di D’Antoni l’hai sposata per davvero?
happy wheelsNasce a Napoli il 07/09/1987. Già collaboratore/redattore per il "Roma", "Il Mattino" e toniiavarone.it, nonostante la laurea in Giurisprudenza ha deciso comunque di intraprendere l'avventura rischiosa e affascinante del giornalismo. Pubblicista dal 2013, ama lo sport e le storie che vi ruotano attorno. Occuparsi di Nba non è un lavoro, ma un piacere.
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