mag 20, 2013 Redazione Cinema 0
Cannes. La “grande bellezza” è qualcosa che Paolo Sorrentino ha inseguito da sempre, con il suo cinema complesso e ricercato, sovrabbondante anche laddove lineare e minimalista. Sembra quasi, allora, che il regista abbia voluto raccontare anche parte di sé stesso nel personaggio di Jep Gambardella, come lui napoletano trapiantato a Roma e come lui alla ricerca di qualcosa di puro pur calato in un contesto decadente, gaudente e a tratti grottesco come quello del cinema italiano.
Forse l’opera più ambiziosa di Sorrentino fino ad oggi, La grande bellezza è un film che vive delle stesse contraddizioni che racconta, di eccessi barocchi e intimità commoventi, momenti di un surrealismo concretissimo come di puro e cristallino godimento estetico essenziale, di una crepuscolarità costante e ininterrotta perfino dalla luce del giorno e momenti di straordinaria lucidità su sé stessi e sul mondo. Un film opulento per ragionata necessità, ma nel quale il regista trova perfino, niente affatto paradossalmente, lo spazio per calmierare la scalmatezza della sua vorticosa macchina da presa. Basta grattare appena la superficie per capire che La grande bellezza non è un film su Roma, non è un film sull’Italia, non è un film per il quale tirare necessariamente sempre in ballo Fellini o Scola. Non perché tutti questi riferimenti siano errati, ma perché Sorrentino ha dato al suo film una personalità singolare e autonoma, e soprattutto universale. Intellettuali di sinistra e nobili decaduti, porporati e galleristi d’arte, direttori di riviste prestigiose e ricchi della più disparata origine sono il mondo in cui si aggira via via più insoddisfatto e malinconico il personaggio di Toni Servillo (dal quale il regista è sempre in grado di distillare il meglio), un uomo che per accidia o timore, narcisisimo o cinismo, superbia o semplice pigrizia, ha lasciato che il vuoto mediocre della chiacchiera e della mondanità, della superfice, anestetizzasse un cuore dolente, e che improvvisamente sente la necessità di cambiare, di ritrovare (nel)la sua vita la bellezza e (quindi) il sentimento. Sorrentino si tiene lontano da ogni moralismo, non mette in scena il mondo della politica (o dei berlusconismi) perché quello che racconta è comunque politico, e fa del percorso di Jep (e forse anche suo) un discorso etico nel quale tutti noi possiamo e dovremmo rispecchiarci. Inutile sentirsi superiori alle brutture e al ridicolo di un mondo pervasivo, sfuggire alla sua corruzione nascondendosi altrove o perdendovisi bizantinamente dentro. Al contrario, serve il coraggio di sentirsi parte di esso, di ammettere le brutture e il ridicolo di tutti noi, i propri vizi e difetti, le sconfitte interiori durate decenni. E da lì ripartire dalle radici, per (ri)raccontare e raccontarsi la verità, il sentimento. Per ritrovare la grande bellezza dell’uomo e del mondo. Quella nascosta, e chiusa dietro portoni la cui chiave, sapendola trovare, portiamo sempre dentro di noi.
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