giu 19, 2014 Gennaro Arpaia Sport 24, Sport USA 0
Come può, un 32 della provincia parigina, prendere le Finals Nba, rivoltarle come un calzino, dominarle per ampi spazi di partita e vincere il titolo sportivo più importante del pianeta?
La risposta – non facile, eh – sta tutta nei 203 centimetri e 113 chilogrammi (vogliamo fidarci della Lega per quanto riguarda il peso), di Boris Babacar Diaw-Riffiod, dai più conosciuto semplicemente come Boris Diaw.
La carriera di Diaw è, come spesso accade a chi vince un anello Nba, quella di un predestinato.
Ben oltre le apparenze, infatti, e un fisico che di atletico ha veramente ben poco, la pallacanestro scorre nelle vene del giovane Boris sin dall’infanzia.
Le colpe, o i meriti, sono della madre, Élisabeth Riffiod, ancora oggi ricordata come uno dei centri dominanti della pallacanestro femminile francese, e del padre, Issa Diaw, che diceva la sua quarant’anni fa nel salto in alto.
Ad unire il tutto, quel sangue mezzo francese e mezzo africano della famiglia Diaw, scappata nelle campagne parigine ad inizio secolo, quando alla popolazione senegalese fu concessa la cittadinanza francese.
La carriera di Diaw non può che partire in Francia: dopo due buone stagioni al Pau-Orthez, subito arriva la chiamata al Draft del 2003, quello di LeBron, Wade e Bosh, e metteteli da parte i loro nomi, perché ce li ritroveremo alla fine della storia.
Boris non è tra i primi, ma è comunque scelto al primo giro: con la numero 21, infatti, finisce ad Atlanta, ed è il secondo francese ad entrare nella Lega quell’anno, dopo che alla numero 11 Pietrus era finito a Golden State.
Ad Atlanta non parte male (44% e 42% dal campo in due anni), ma la vera consacrazione arriva quando si trasferisce a Phoenix nel 2005, dopo uno scambio con Joe Johnson: nella squadra di Nash, Stoudemire e Raja Bell, Diaw diventa un punto fisso, tira col 52% dal campo e si guadagna il titolo di Most Improved Player al termine della stagione.
È proprio negli anni di Phoenix che si guadagna il soprannome di ’3D’, che da una parte ricalca le dimensioni eccessivamente tridimensionali del suo fisico, e dall’altra attinge dal numero di maglia e dalla tridimensionalità del suo gioco, adattandosi in qualsiasi ruolo richiestogli da Mike D’Antoni.
Ai Playoffs, però, i Suns non hanno buona sorte e, dopo tre anni di alterne fortune, Diaw, insieme con Bell e Singletary, si ritrova a Charlotte, scambiato per Jason Richardson e Jared Dudley.
I Bobcats non sono proprio la quadra dei sogni di Diaw, e in effetti insieme non vanno molto lontano.
Il 21 marzo del 2012 viene tagliato da Charlotte, ma dopo soli due giorni si ritrova a firmare un contratto fino al termine della stagione con gli Spurs, passando da una delle squadre peggiori di sempre ad una delle squadre migliori di sempre, in pieno stile Diaw e di una carriera mai banale, sempre oltre gli equilibri e vicina agli eccessi di ogni tipo.
Nel luglio 2012 la storia d’amore con San Antonio comincia a tutti gli effetti: due anni di contratto per vincere il titolo.
Popovich, che di basket pare capirci abbastanza, lo affianca ai tre tenori neroargento: uno di questi, Tony Parker, è fondamentale nell’integrazione di Diaw negli speroni.
I due, nati a qualche chilometro di distanza in Francia, si conoscono dagli anni delle scuole, condividono la maglia della nazionale, e Diaw ha addirittura fatto da testimone al playmaker al suo matrimonio con la Longoria.
La prima annata non ha lieto fine: gli Spurs raggiungono le Finals contro gli Heat, campioni in carica, e si arrendono solo a Gara 7 allo strapotere di LeBron e compagnia.
Ma gli Dei del basket la sanno più lunga persino di Popovich, e un anno dopo è ancora Finals Nba, ancora contro Miami.
San Antonio non è la stessa di un anno prima e, molto probabilmente, ha lavorato tutto l’anno con quella bruciante sconfitta nei ricordi.
Nel progetto vincente Boris Diaw è protagonista assoluto: parte in quintetto, aiuta Duncan, Parker e Ginobili e, quando si mette in proprio, domina la serie.
Basterebbe l’eloquente ‘+74′ a favore dei suoi che si legge nel tabellino quando Diaw è stato sul parquet nelle cinque gare delle Finals, a spiegare il suo ruolo nella franchigia.
Basterebbero il passaggio dietro la schiena a Splitter, o l’Alley-Oop per Leonard, o ancora la miriade di assistenze per Ginobili, Mills o Belinelli.
Basterebbe guardarlo da lontano mentre esce dal campo a pochi minuti dalla fine di Gara 5, quando va ad abbracciare uno ad uno gli elementi della panchina, a ringraziarli per aver vinto insieme il titolo.
Basterebbe la sua faccia, da artista della pallacanestro, per esprimere tutta la felicità di un anello Nba.
Perché anche lui, come qualcun altro, ha dovuto guadagnarsi il posto in questa Lega sin dal primo giorno.
E anche lui, con qualche lacrima in meno davanti alle telecamere, a dispetto di tutto e tutti, alla fine ha vinto.
happy wheels
Nasce a Napoli 23 anni fa. Appassionato di sport, NBA-dipendente. Pubblicista per passione, giurista d'ambizione.
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