giu 17, 2014 Alessandro Pagano Sport 24, Sport USA 0
Roma. Mark Leonard ha 3 grandi passioni: il suo autolavaggio, la pallacanestro e le Hawaii. Le sue fantasie rivolte ad uno dei paradisi terrestri più famosi lo porta a dare un nome piuttosto strano a suo figlio: Kawhi, qualcosa che si avvicina molto alla pronuncia di una delle sue passioni. Così, il 29 Giugno 1991, Los Angeles, California, nasce Kawhi Anthony Leonard da papà Mark e mamma Kim.
Un nome strano, troppo strano. Ma, in fin dei conti, racchiude tutto ciò che si può raccontare di una persona che è cambiata in una fredda notte di gennaio. La parte finale del suo nome assomiglia molto ad una domanda alla quale si è imposto di non rispondere: WHY? Perché? Dal 16 gennaio del 2008, il sedicenne Leonard non sa rispondere a questa domanda. Compton, sud di Los Angeles, era un venerdì sera come tutti gli altri e papà Mark era come sempre a lavoro, nel suo autolavaggio. Una macchina si avvicina, l’ultima macchina. Cercano di rapinarlo e poco dopo si sentono degli spari, dei forti rumori, prima del silenzio tombale, irreale. Cade a terra il 42enne, privo di vita. Frank Salerno, sceriffo del dipartimento della contea di Los Angeles, comunica alla famiglia che non c’è stato alcun arresto e finora nessun movente è stata trovato. Ed è qui che iniziano i lunghi WHY del piccolo Kawhi. Perché nessun arresto? Perché nessun testimone collabora con la polizia? Le successive 3 notti non riescono a dar risposta d un ragazzo che si vede crollare il mondo addosso, vede svanire il sogno di rendere orgoglioso suo padre fino in fondo, come aveva provato a fare fino a quel momento. Sebbene lo fosse già in parte, quella notte segna la svolta di Kawhi: diventa maturo ad appena 16 anni. Le risposte iniziano a venir fuori, non subito. “Cerco di non pensarci”, dice Leonard, “E’ Los Angeles. Ce ne sono in continuazione di omicidi. E i colpevoli non vengono mai trovati. È semplicemente la realtà, credo”. Parole che provengono da una persona cambiata, completamente stroncata dal punto di vista emotivo dalla scomparsa del suo fan#1, dall’assenza che si sarebbe perpetrata negli anni di una figura paterna sulla quale poter contare. Kim Robertson, sua madre, continua a ripetergli che Mark sarebbe stato fiero di lui, di tutto ciò che ora, a distanza di appena 6 anni è riuscito a fare. Uno spontaneo “perché” stavolta viene dal cielo: “E perché non avrebbe dovuto farcela?” è il pensiero del padre di Kawhi, il suo unico vero idolo. Mark è come l’altra metà di se stesso, è la persona che gli ha insegnato a lavorar duro in ogni campo, gli ha insegnato a guadagnarsi le cose, ad essere un vero uomo, a sudare su quelle colline di LA per raggiungere il top della forma. Se l’autolavaggio non era abbastanza pulito, il primo a tornarci era Kawhi, pronto a rimettersi immediatamente a lavoro per far splendere tutto. Le poche parole di Kawhi che lo ricordano sono “Mi ha insegnato a lavorare sodo”. L’incomunicabilità dell’anima si percepisce subito, basta ascoltarlo parlare. Ma la vita continua, il piccolo lo sa e non si perde d’animo. Perché lavorar sodo è quello che gli viene meglio, è quello che farà finchè il suo cuore non cesserà di battere.
La prima esperienza di Leonard è al Canyon Springs High School, situato a Moreno Valley, California, di sicuro una scuola non conosciuta per la pallacanestro. Poco dopo il trasferimento al Martin Luther King High School, una sorta di ritorno a casa visto che si trova nel Riverside, suo luogo natio.
Inizia qui la sua carriera cestistica: durante l’ultimo anno, insieme alla guardia dei Chicago Bulls Tony Snell, ha portato i King High Wolves a un record di 30-3 e Leonard è stato nominato California Mr. Basketball per il 2009. Si classifica 48esimo nella lista dei migliori prospetti della nazione e la San Diego State University (SDSU) decide di “investire” su di lui. Come matricola alla San Diego State, Kawhi ha una media di 12.7 punti e 9.9 rimbalzi a partita durante, tirando col 45,5% dal campo. Ma Leonard inizia a sviluppare un fisico fuori dal normale: seppur resti gracile, le spalle, la lunghezza delle braccia e l’ampiezza delle mani crescono a dismisura. Trovargli un ruolo è qualcosa di veramente complesso. Ha guidato le classifiche della Mountain Western Conference a rimbalzo, è stato nominato matricola dell’anno nella MWC, viene inserito nel primo quintetto e viene addirittura nominato MVP nel 2010.
Leonard ha portato gli Aztecs della SDSU a un record di 25-9 tra cui un record di 11-5 nella MWC. Vincendo la sua conference, l’univeristà si aggiudica di diritto l’invito al Torneo NCAA. La prima apparizione di San Diego State non però il massimo: sconfitta contro Tennessee 62-59 al primo turno con la solita doppia doppia di Leonard con 12 punti e 10 rimbalzi. Ah si, perché quello gracile che stava sviluppando il fisico di cui sopra, gioca centro, ma per davvero! Stagione archiviata, si passa a quella da Sophomore. Numeri nettamente in rialzo: 15.7 punti e 10.4 rimbalzi di media a gara. Leonard, col solito duro lavoro, porta gli Aztecs a un record di 34-3 e al back-to-back Mountain West Championships. Leonard e San Diego State si ripresentano, dunque, al Torneo NCAA. Questa volta non escono al primo turno e arrivano alle Sweet 16, dove avrebbero perso contro la UConn di Kemba Walker e Jeremy Lamb.
Altra importante svolta per il nostro Kawhi: rinuncia alle sue due ultime stagioni a San Diego State e si rende eleggibile per il Draft NBA del 2011. Alla numero uno Kyrie Irving da Duke, alla numero due Derrick Williams da Arizona e alla dieci quel Kemba Walker che lo aveva battuto nel Torneo NCAA. Alla quindici tocca agli Indiana Pacers: Kawhi Leonard. Ma a 1.174 miglia di distanza, una cornetta telefonica unisce gli studi di due General Manager: R.C. Buford dei San Antonio Spurs e Larry Bird degli Indiana Pacers. Quando i telefoni son giù, Buford è soddisfatto e urla “E’ NOSTRO!”. In Indiana ci andrà George Hill e in Texas arriva Kawhi Anthony Leonard. Così, dopo la fine del LockOut, gli Spurs mettono sotto contratto il ragazzo californiano.
L’adattamento ai metodi di un generale come Popovich non è così scontato ma l’etica del lavoro ereditata da papà Mark è unica e l’inserimento è perfetto: gran lavoratore, eccellente studente del gioco e una vita ormai dedita solo a quello. Dirà poco dopo la prima partita senza suo padre: “Il basket è la mia vita. Volevo giocare per non pensare ad altro. È stato tristissimo. Mio padre doveva essere sugli spalti”. La commozione e la profondità delle sue parole fanno capire il cambiamento che c’è stato in lui e la dedizione che ora rivolge alla sua professione. Si ma a San Diego State era centro, nella NBA non si può essere centri in quel modo. E qui ritroviamo degli aneddoti che solo una persona che ha vissuto e lavorato con lui può raccontarci. Parliamo del suo coach alla SDSU, Steve Fisher. Il capo allenatore di San Diego State riceve una telefonata, c’è un problema con Kawhi. È già la seconda mattina di fila che si presenta alle 06:30 del mattino, quando ancora le luci della palestra sono spente. Ma non c’è nessun problema, vuole solo entrare, le luci possono rimanere anche spente, tanto si è portato due lampade da casa. E così, con quella fioca luce delle lampade si è iniziato ad allenare. Potrebbe essere una leggenda se non fosse per le parole del coach: “E’ una storia vera!”. Quel lavoro di tutte quelle mattine teso a migliorare tutti gli aspetti del suo gioco, dal palleggio al fisico, dall’elevazione al tiro, dalla coordinazione alla difesa. Tutto ciò agevola il suo inserimento a San Antonio e Popovich, uno che non apre mai la bocca a caso ci vede bene anche in questo caso: “E’ IL FUTURO DELLA FRANCHIGIA”.
Le stagioni seguenti lo vedono scalare gradualmente le gerarchie in casa Spurs. Insieme a Splitter gioca il Rising Stars Challenge del 2012 come membri del Team Chuck. Il suo utilizzo viene gestito, come sempre, in maniera ottimale da Pop che si vede costretto a fidarsi di lui in un momento di estrema necessità: l’11 febbraio 2013, in una serata in cui Tim Duncan, Tony Parker e Manu Ginobili erano fuori per infortunio e Stephen Jackson era indisponibile per ragioni personali, Leonard guidò gli Spurs alla vittoria per 103-89 contro i Chicago Bulls, segnando 26 punti e appena due giorni dopo, nella partita contro i Cleveland Cavaliers segnò la tripla decisiva a pochi secondi dal termine, portando il punteggio sul 96-95 per gli Spurs.
L’ascesa di Kawhi sembra essere inarrestabile. Arriva il palcoscenico più alto: le NBA Finals del 2013, le prime per lui. Dinanzi a se, per la prima volta, la possibilità di vincere un titolo NBA. La sfida, però, non è di quelle semplici. Popovich lo definirà un “giocatore speciale in entrambe le metà campo” ed è proprio questo che dimostrerà durante quella incredibile serie finale. Costringe il 4 volte MVP LeBron James a tiri forzati che, seppur realizzati, non scalfiscono la fiducia di Kawhi.
Il numero dei tentativi dal campo scendono per il talento di Akron anche grazie al lavoro di Leonard. Tutto ma proprio tutto quello che si può fare contro un androide come LeBron, lui lo ha fatto. Va ad centimetro, ad un passo così dall’accarezzare il trofeo, ha la chance di chiuderla dalla lunetta in Gara6 ma il suo 1/2 dà spazio al tiro da 3 di Ray Allen che la manda all’overtime. Per i 288 minuti giocati in quelle Finals ha portato il mondo sulle spalle, difendendo, segnando, sudando, sacrificandosi, esultando e recuperando. Ma bastano quei fatali 19’’ per far crollare quel mondo che sorreggeva, con onore e con fatica, con orgoglio e seguendo i consigli di chi sa lassù lo guarda sempre. Negli spogliatoi dell’AAA quella sera non sapremo mai cosa si son detti i giocatori di San Antonio e nemmeno dopo che Pat Riley, due giorni più tardi, alza il trofeo in una Miami in festa. Le ferite sono aperte ma l’esperienza è troppa per restare ancorati ad una o due partite perse. Bisogna ricominciare a lavorare e come sempre Kawhi è in prima fila. Anche alle 06:30 del mattino. La cavalcata è simile, molto simile. La finale, invece, praticamente uguale, ancora una volta San Antonio Spurs contro Miami Heat. Non è propriamente tutto uguale: dal fattore campo all’approccio alle gare, dalla voglia di vincere alla profondità dei roster. Ma questo non è il momento per parlare dei motivi e delle cause del quinto trionfo Spurs. Questo è il momento di sottolineare come un 23enne ha guidato una squadra al titolo, questa volta senza far vacillare quel mondo che gli cadde dalle enormi spalle quella sera. Stavolta il mondo lo sorregge con più energia, con più voglia, con più determinazione. Questa volta il mondo non lo lascia sfuggire per nessun motivo al mondo, non può permettersi di fallire due volte. Non può. E allora perché non chiedersi ancora una volta WHY? Stavolta la risposta l’ha trovata, eccome. La risposta al perché non riprovarci, al perché non continuare e finire ciò che l’anno scorso gli era sfuggito, perché non credere in un sogno che avrebbe reso ancora più orgoglioso papà Mark? È questa la differenza tra gli Spurs e gli Heat: la VOGLIA di VINCERE. Leonard personifica alla perfezione questo concetto, quegli occhi della tigre che bisogna avere in queste occasioni. Sia ben chiara una cosa però: Kawhi non ha mai mostrato gli occhi della tigre esteriormente. Ha sempre avuto quell’atteggiamento da lavoratore insaziabile, da leader silenzioso, quasi da irreale protagonista che neppur i miglior registi avrebbero saputo raccontare. Diventa Re e conquista il suo primo anello e nemmeno lì si scompone, resta con quel suo sorriso timido, quasi imbarazzato. Il riconoscimento più alto arriva di diritto: MVP delle Finals. Ed è solo allora che Kawhi si lascia andare a festeggiamenti quasi inusuali per lui, festeggiamenti che, però, raccontano di quanto sia stato duro il suo viaggio, la sua scalata e il suo lavoro.
E allora, caro Kawhi, anche se i perché non ti son mai piaciuti, uno te lo poniamo noi e seppur può sembrare troppo semplice e banale è quello più vero e sincero: il miglior prospetto della Lega per i prossimi anni sei tu, il tipo di giocatore che sei ti porterà a dominare questa Lega perché hai tutto ciò che serve per farlo. WHY NOT?
happy wheelsNato a Pompei il 3/4/1993. Studente del corso di Scienze e Tecnologie della Comunicazione presso La Sapienza di Roma, Redattore NBA per partenopress.com e My-Basket.it; giocatore e amante della palla a spicchi da sempre. MORE THAN A GAME.
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